Siamo partiti la domenica mattina, era presto ed eravamo tutti ancora un pó assonnati, per accompagnare il piccolo sportivo di casa. Si arriva in un palazzetto di un paesino disperso nel Reggiano. Le famiglie si organizzano un po' disorientate negli spalti, ma i piccoli sportivi sanno cosa fare e si radunano attorno ai maestri. Iniziano i preparativi. Ora non c'è solo la divisa, ma anche le protezioni, la corazza e il caschetto. La questione si fa seria, perché loro sono lì per combattere. Tra le definizioni di combattere quella più adatta per l'occasione è "Impegnarsi con ogni mezzo a qualche scopo cercando di superare ogni ostacolo o difficoltà". Quando entrano nel quadrato, nello spazio del combattimento, non sono soli: c'è la voce del maestro per i buoni consigli e l'arbitro vestito con giacca e cravatta, benevolo, ma austero, che predispone al saluto e vigila sull'incolumità e sulla correttezza. E poi si comincia. Da quel momento ogni bambino inizia la propria sfida, per qualcuno é vincere, per un altro è riuscire in una mossa speciale, per altri reagire, rialzarsi dopo la caduta, controllare l'emozioni, a volte essere arrivato fin lì. Allora il tifo non è più per chi fa più punti, ma per chi vince la sfida con se stesso. Alla fine del combattimento, l'inchino del saluto e gli atleti stringono la mano all'arbitro, poi tra di loro e ai rispettivi maestri. Si parte per accompagnare il piccolo sportivo di casa, si torna con una squadra di piccoli eroi nel cuore e un profondo rispetto per chi con l'attività di insegnamento del taekwondo diffonde i valori di rispetto, disciplina e forza (fisica ed emotiva). Nei giorni successivi si confrontano: io ho vinto la medaglia, io no, il mio avversario era più grosso, …anche così si preparano alla prossima sfida.